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Benessere fisico o mentale riconoscerlo per esserne grati

La riconoscenza è uno di quei moti interiori che, pur sembrando semplici, sono in realtà il prodotto di un intreccio raffinato di coscienza, sensibilità e maturità emotiva. È qualcosa che parte da dentro, un riconoscere nel senso più nobile del termine il valore di ciò che si riceve, che sia un gesto, una parola, un tempo condiviso o persino una rinuncia fatta per noi. Non è solo un “grazie”, ma una forma di connessione sottile, che unisce chi dà e chi riceve in un legame che va oltre l’azione stessa.

Eppure, nonostante la bellezza quasi disarmante di questo sentimento, la riconoscenza non è affatto scontata.

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Molti non riescono a esprimere gratitudine, e quando ciò accade, le cause non sono banali. Bisogna scendere nei meandri della psiche per comprendere perché un gesto così umano possa risultare tanto difficile.

A livello psicologico, molte persone hanno sviluppato, fin dall’infanzia, una modalità relazionale fondata sull’autosufficienza forzata. Chi ha vissuto in ambienti familiari dove l’amore era condizionato, o dove mostrare bisogno significava esporsi a rifiuto o giudizio, può aver appreso che accettare un aiuto o un dono è pericoloso. In queste persone, la riconoscenza viene vissuta quasi come una perdita di potereun’ammissione di dipendenza. E quindi, anche se sentono qualcosa dentro, lo bloccano.

Un meccanismo di difesa, insomma: meglio apparire forti che mostrare gratitudine e scoprire il fianco.

In altri casi, la riconoscenza viene ostacolata da dinamiche legate all’autostima.

Chi ha una visione distorta di sé — chi si sente immeritevole, ad esempio — può ricevere un gesto d’affetto o un favore e, invece di sentirsene toccato, provare disagio.

Una sorta di colpa, come se quel gesto fosse immeritato.

La gratitudine allora si trasforma in imbarazzo, e l’individuo si chiude, convinto di non avere il diritto di accettare né tantomeno di esprimere riconoscenza.

Leggendo a livello psichiatrico o comunque nei disturbi più marcati della personalità, possiamo assistere a situazioni ancor più complesse. Nelle strutture narcisistiche, ad esempio, la riconoscenza è percepita come una minaccia al proprio senso di superiorità.

Riconoscere il valore di qualcun altro significherebbe relativizzare il proprio. Il narcisismo patologico non tollera di dover dire “grazie” senza sentirsi in qualche modo scavalcato. È una forma di fragilità travestita da forza: una maschera rigida, che impedisce al cuore di esprimersi. Ma anche nella depressione o in alcuni stati ansiosi gravi, può accadere che la persona non riesca a percepire il valore dei gesti altrui, non perché non li apprezzi, ma perché è talmente immersa nel dolore da non riuscire a riconoscere ciò che le arriva come positivo. È come voler guardare il sole da dietro una tenda nera: c’è luce, ma non la si vede.

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C’è poi il fattore culturale. In una società dove il successo è misurato in termini di prestazione e possesso, e dove l’atto del “ricevere” è spesso visto con sospetto, la gratitudine viene ridotta a un formalismo. Le persone imparano a dire grazie per educazione, ma non per sentire. In questo quadro, la riconoscenza vera diventa quasi una forma di disobbedienza poetica: un atto intimo, libero, e per questo poco allenato.

Ma la riconoscenza non è solo verso gli altri. 

Spesso la riconoscenza più difficile è quella che dobbiamo a noi stessi. Perché richiede un confronto con la nostra storia, con le scelte fatte, con le cadute e le risalite. E se non siamo abituati a rispettarci, se siamo cresciuti nel giudizio o nella pressione costante a “dover fare di più“, allora anche il semplice atto di dirci “bravo, hai fatto del tuo meglio” può diventare un’impresa. Riconoscersi è il primo passo per riconoscere l’altro.

In fondo, praticare la riconoscenza è un atto rivoluzionario. È come respirare consapevolmente in mezzo a un mondo che corre e dimentica. È una forma di presenza, di attenzione, di ascolto. E come ogni disciplina richiede tempo, pratica, e soprattutto un cuore che non abbia paura di mostrarsi.

Denis Vignocchi, @DenisTthai @thaidenis

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