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Le verità nascoste dietro il mercato dei fiori

Rose, garofani e crisantemi: il business milionario delle multinazionali che prospera sullo sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente di Africa Orientale e Sud America e l’alternativa etica della floricoltura italiana a chilometro zero.

Regalare dei fiori è un gesto senza tempo, un’attenzione che profuma di gentilezza, che crea legami e li rinforza.

Tuttavia la grazia di questi meravigliosi doni della natura nasconde una realtà ancora a molti sconosciuta. Infatti la maggior parte dei fiori che riempie gli occhi e il negozio del nostro fioraio di fiducia proviene principalmente da Kenya, Tanzania Uganda ed Etiopia. Si stima che circa il 70% dei fiori presenti sul mercato europeo arrivi dall’Africa Orientale, tant’è che il settore floreale rappresenta l’1% del PIL nazionale africano. Mentre Colombia ed Ecuador in America Latina garantiscono l’80% delle importazioni di fiori negli USA e in Canada.

Il punto è che il primato assoluto di esportazioni si è verificato in seguito al trasferimento delle produzioni delle multinazionali europee in questi paesi poveri. Qui i lavoratori, per lo più donne e bambini, sono costretti a turni massacranti lunghi anche 16 ore, a rimanere piegati a lungo, in posizioni scomode per la schiena e le gambe, in cambio di misere paghe e senza alcuna tutela sindacale. Troppo spesso le donne sono vittime delle violenze psicologiche e sessuali dei capireparto, quasi mai denunciate, e se incinte sono obbligate a nascondere la gravidanza per non perdere il lavoro.

Oltretutto Secondo l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (EPRA) l’uso massiccio di fitofarmaci a cui sono esposti i lavoratori provoca numerosi danni alla salute come tumori, infertilità, rischi per il nascituro. In aumento le malattie respiratorie tra gli operai.

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Si trova a meno di un’ora da Nairobi, in Kenia, nelle vicinanze del lago Naivasha, l’area destinata alla floricoltura più redditizia dell’Africa. In particolare si contano circa un centinaio di serre adibite alla monocoltura delle rose che hanno radicalmente stravolto il paesaggio di un tempo.

Nulla più rimane dello scenario idilliaco degli anni 50 del secolo scorso dove le acque cristalline del lago, con una superficie pari a 139 chilometri quadrati, erano dimora di numerose specie di pesci e ippopotami e tra l’azzurro del cielo e le folte chiome degli alberi di acacia centinaia di uccelli e farfalle variopinte si libravano in volo.

Di quel paradiso oggi resta un lago e della terra avvelenati da pesticidi e fertilizzanti e la conseguente scomparsa della maggior parte di fauna e flora che caratterizzavano l’area.

Le multinazionali che si sono andate via via insediando, per la maggior parte olandesi, negano l’accesso alla pesca agli abitanti locali poiché il lago è diventato la fonte principale di irrigazione delle rose. Ogni giorno dal Lago Naivasha vengono estratti circa 20.000 metri cubi d’acqua causandone l’irreparabile prosciugamento, senza contare che le monocolture intensive distruggono la biodiversità e mettono a rischio la sovranità alimentare.

A raccolta avvenuta i fiori vengono irrorati ulteriormente con un mix a base di fungicidi, insetticidi, erbicidi e con prodotti che ne bloccano lo sviluppo. Segue l’inscatolamento, la conservazione in celle frigo ad una temperatura di 7-10 gradi e la spedizione notturna su voli cargo in direzione del porto di Aalsmer, in Olanda. Superata l’ispezione alla dogana i fiori sono trasferiti alla prestigiosa asta di Flora Holland dove rose, garofani, crisantemi e tulipani sono i fiori più acquistati da grossisti e negozianti. Le compravendite durano un’ora dopodiché i fiori riprendono il loro viaggio verso le destinazioni finali.

In realtà la bellezza perfetta dei bouquet a cui siamo abituati spesso non ha niente più a che fare con la naturalezza e la semplicità di un fiore appena colto dal campo. Sono fiori sopravvissuti all’abuso di sostanze chimiche maneggiate da lavoratori a loro volta violati nella loro dignità e nei loro diritti primordiali complici inconsapevoli dell’ennesimo disastro ambientale da dominio capitalista.

Slow flower: floricoltura a filiera corta e sostenibile

Ma c’è speranza!

Negli ultimi anni, in modo lento ma continuo, si va recuperando un agire più etico. Nasce da una scrittrice statunitense il movimento Slow Flower la cui filosofia incontra quella di alcune donne italiane a capo di aziende agricole in Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana, Emilia Romagna, che con dedizione e la giusta dose di caparbietà diffondono il sapere della floricoltura a filiera corta e sostenibile in ognuna delle sue fasi produttive. I fiori coltivati senza l’uso di fitofarmaci, crescono con i loro tempi e le specie si susseguono in base alle stagioni e alle caratteristiche del territorio.

Che si tratti di bouquet o allestimenti floreali per eventi, alla plastica dei fogli da confezione e dei vasi e alla spugna sintetica, si preferiscono materiali come legno, carta, reti metalliche molto più ecologici e facilmente riciclabili.

Mentre ai fiori coltivati, si accosta liberamente l’inaspettata bellezza di erbe spontanee per creare design unici, nel rispetto della biodiversità.

È un ritorno a una maniera femminile, quasi materna di concepire la produzione floreale, che vuole sensibilizzare coltivatori, floral design, fioristi e consumatori, a scelte più coscienziose e poco impattanti sull’ambiente.

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